giovedì 9 ottobre 2008

L'ESEMPIO DI ANNA P.

Fare il giornalista deve essere un mestiere non molto facile, ma sicuramente affascinante. Si sta dentro agli eventi, si ha il dovere di riferirli con oggettività e, se possibile imparzialità Si può poi commentare questa o quella notizia, suggerendone una lettura, un’interpretazione, anziché un’altra.

Fare il giornalista che va controcorrente è sicuramente in po’ più complesso: implica coraggio civile, propensione al rischio, capacità di sacrificarsi molto e di incassare i colpi che, chi si vede oggetto di inchieste o reportage, non esita ad infliggerti.

Si è inoltre più isolati, molti magari ti leggono ma sono molti di meno quelli che ti stanno accanto e ti aiutano ad andare avanti. E nei momenti difficili avere una o più persone vicino sostiene la determinazione.

In Italia il più noto è sicuramente M. Travaglio, formatosi alla scuola di Montanelli, che gli insegnò, lo dice lui stesso, tra le altre cose che a 90 anni energia intellettuale e coraggio sono ancora armi preziose.

Milena Gabanelli è forse meno nota e meno esplosiva di Travaglio, ma le sue inchieste lasciano ogni volta il segno: è di oggi la notizia che grazie a lei e al suo Report, che vedremo domenica sera in Rai 3, c’era nel decreto emesso per salvare Alitalia un comma che salvava i grandi manager dalla punizione per i reati commessi.

Si vuole qui ricordare, tra i tanti, il nome di Tanzi Calisto, patron Parmalat.

Di altri giornalisti che magari lavorano bene o benissimo non si sa. Di sicuro ce ne sono. Una è al mattino di Napoli e scrive di camorra.

Ma se qui da noi andar controcorrente, contro i poteri politici ed economici o mafiosi, cioè svelare al grande pubblico quello che di sporco fanno dietro la faccia sorridente e tirata a lucido , è impresa non da poco per chi si accinge a quel compito

(Enzo Biagi, Santoro e Luttazzi non erano dei giovani alle prime esperienze eppure sono rimasti fuori per anni dai teleschermi)

all’estero, in Russia, la situazione non è certamente più facile.

La capitale di quel paese fu sconvolta da sanguinari attentati ad opera dei separatisti ceceni ed il potere reagì mettendo a ferro e a fuoco quella piccola repubblica.

Ammnesty international ha invitato a ricordare la figura e l’opera di una giornalista: Anna Politkovskaja di cui il 7 ottobre scorso ricorreva il secondo anniversario della morte.

Uccisa non si sa da chi. I più pensano che il mandante sia stato il presidente Putin, ma sicuramente tutti sanno perché.

Aveva cercato di raccontare una guerra sporca senza paura di tirare in ballo i potenti, laddove i fatti che lei raccontava li coinvolgevano.

Era conosciuta più all’estero che in patria. Ma i suoi articoli erano ugualmente temuti.

Tanti anni fa qualcuno diceva che nulla è più rivoluzionario della verità.

Anna Politkovskaja affermava che a lei non sembrava di far nulla di straordinario: guardava i fatti, li metteva in ordine, ci ragionava e li riferiva.

Aveva sicuramente percezione precisa dei rischi che correva. Non erano certo mancati né gli avvertimenti né le minacce.

Ma aveva voluto andare avanti perché riteneva che quello fosse il suo dovere civile.

Molti giornali hanno dato seguito all’invito di Amnesty I. La rubrica di Radio 3: Fahrenheit ne ha parlato. Ma in 24 ore tutto è stato dimenticato.

Ecco si sente il bisogno che figure come quelle di Anna Politkovsjaja emergano dall’oblio della dimenticanza, che vengano continuamente, con il loro lavoro, riproposte all’attenzione dei tanti che cercano modelli, esempi su cui impostare le proprie scelte.

Il pensiero corre ai tanti giovani giornalisti e ai tanti altri, meno giovani che, qui da noi, ormai da anni aspettano un rinnovo contrattuale che gli editori non vogliono.

L’insicurezza sul tuo futuro ti rende controllabile, il contratto che non arriva mai ti rende più debole, se per caso hai voglia di provare ad imitare qualcuno che rompe gli schemi, è più facile senza sicurezze di stipendio che questo desiderio tu lo accantoni.

Anche così il potere economico che controlla i grandi giornali riesce anche ad influenzare la non-formazione di un’opinione pubblica, sulla cui pesante assenza si era scagliato, in estate, Nanni Moretti a Locarno.

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